Etica professionale quasi assente, cattura dei media da parte della politica e insostenibilità finanziaria sono solo alcune delle principali questioni che rendono il panorama mediatico albanese particolarmente allarmante. Un’intervista
L’indipendenza dei media è un tema che suscita molte preoccupazioni in Albania, soprattutto alla luce di un controllo quasi totale da parte del governo che ha trasformato i principali mezzi di comunicazione in strumenti di propaganda politica. Ne abbiamo parlato con Koloreto Cukali, giornalista e produttore che dal 2017 presiede l’Albanian Media Council, un’organizzazione il cui obiettivo è stabilire standard etici per la professione giornalistica e introdurre meccanismi di autoregolamentazione dei media.
Lei dirige l’Albanian Media Council, un’organizzazione che promuove l’autoregolamentazione dei media. Di cosa si tratta?
L’Albanian Media Council è un prodotto di importazione, diretto, europeo. L’Ue sostiene l’autoregolamentazione dei media e spinge per la creazione dei cosiddetti consigli di media [come previsto anche dal Regolamento europeo sulla Libertà dei Media adottato di recente, ndr]. Se si tratta di organismi ai quali il pubblico può rivolgersi per presentare lamentele sulla condotta dei media.
Non è stato semplice istituire questo Consiglio, è un percorso che abbiamo avviato già da qualche anno e il nostro governo ha fatto di tutto per sabotarlo.
La politica albanese da sempre cerca di controllare i media, ma l’attuale primo ministro è impegnato più di altri in questo senso: non può dimostrare risultati concreti lavorando sulla propaganda mediatica per dimostrare che va tutto bene.
In un modo o nell’altro il governo albanese controlla la maggior parte delle reti televisive. Lo studio Media Ownership Monitor realizzato da BIRN esamina esattamente questo controllo capillare dei media tradizionali da parte del governo. Nel caso della TV la maggior parte dei proprietari sono uomini d’affari, i cosiddetti oligarchi, che in cambio della propaganda a favore del governo ottengono commesse pubbliche. È una situazione che dura da anni.
L’unico campo in cui si trovano il primo ministro e il sindaco di Tirana – le due persone più importanti del paese – non può controllare tutto sono i media online. Per anni hanno cercato di introdurre una legge sulla diffamazione che avrebbe disciplinato anche i media online. Il nostro Consiglio ha tentato di bloccarla con una campagna di mobilitazione; abbiamo ottenuto il sostegno di molti giornalisti e media e anche l’Unione Europea ci ha sostenuto per un po’. A un certo punto è intervenuta anche la Commissione di Venezia con un parere che ha valutato e di fatto demolito la proposta di legge.
Ci sono normative europee che prima o poi l’Albania dovrà introdurre: la nuova direttiva contro la SLAPP, ad esempio, va in direzione contraria a quella del nostro primo ministro, ma questo è un tema di cui ancora in Albania non si parla.
Sfortunatamente ci sono tanti problemi, c’è tanta diffamazione, l’etica professionale è al livello più basso di sempre. I media si rivolgono ai politici, agli uomini d’affari, per fare soldi. Non c’è un buon clima.
L’Albanian Media Council è sforzato di contrastare questa deriva, soprattutto nel tema dell’etica del giornalismo. Un compito piuttosto difficile…
È difficile perché il governo sta facendo di tutto per sabotare questa iniziativa. Al primo ministro serve dire che l’autoregolamentazione non funziona e che i media vicini al governo non prendono parte alla nostra iniziativa perché c’è chi ha fatto la loro pressione.
In Albania non ci sono organizzazioni professionali o sindacati dei giornalisti?
No, ci sono solo associazioni che si occupano di media, ma non sono sindacati, né organizzazioni professionali, e nessuna di queste organizzazioni è in grado di mobilitarsi come farebbe un sindacato.
Qual è il motivo secondo lei?
È una storia lunga. I sindacati sono stati devastati dal regime comunista. Non abbiamo una tradizione sindacale vera e propria. Poi la dittatura ha rovinato lo spirito collaborativo della popolazione. La gente non vuole più far parte di un’organizzazione perché per 45 anni è stata costretta a far parte delle organizzazioni di partito.
Alcuni movimenti però ci sono stati: ad esempio per la tutela ambientale ci sono iniziative statali che hanno mosso la società albanese.
Personalmente non vedo un vero impatto nemmeno in questo caso. Questo tipo di movimenti riesce a fare la differenza solo se si riesce a mettere in gioco l’Unione Europea o qualche altra organizzazione internazionale che dice “No, questo non lo potete fare”, perché ogni resistenza è inutile.
Quindi l’interferenza politica è un problema fondamentale.
È il modello di business il vero problema dei media. Negli ultimi anni il pubblico non paga di più: prima c’erano i giornali, il pubblico li comprava, adesso nessuno vuole pagare di più perché ci si aspetta che l’informazione sia gratuita.
Qui mancano i numeri per tenere a portata di mano anche le piccole pubblicazioni. I fondi per i media sono pubblici e controllati dalla politica oppure vengono da oligarchi che acquistano pubblicità. Poi ci sono i soldi che vengono dalla criminalità organizzata, dalla droga, dal crimine…
Non c’è modo di essere indipendenti finanziariamente. Risolto il problema delle risorse, si risolve quasi tutto. La soluzione è una sola: l’Unione Europea deve finanziare i media, cioè trovare dei meccanismi che, per un periodo di 5 anni, rendano forti e indipendenti i media.
Oggi gli unici media che fanno la differenza sono quelli finanziati dai donatori, ad esempio BIRN, Citizens Channel, Faktoje.al, ma sono pochissimi. Serve invece ad aiutare i media commerciali che vorrebbero fare buon giornalismo.
Qual è la situazione relativa alla sicurezza dei giornalisti in Albania?
Un membro del nostro Consiglio d’etica, che è anche professore all’Università di Tirana, una volta mi ha detto: “In Albania non si uccidono i giornalisti perché non ce n’è bisogno, hanno già ucciso il giornalismo”. Il governo non ha bisogno di minacciare i giornalisti, risolvendo direttamente i problemi con i proprietari dei media.
Ci sono minacce che giungono dalla criminalità organizzata, ma da quella che molti giornalisti non denunciano più perché hanno la percezione che la polizia non sia molto motivata ad aiutare i giornalisti.
Il processo di integrazione europea ha avuto un ruolo in questi anni per la tutela della libertà dei media in Albania?
Non vedo alcun impatto reale. Per esempio, alcuni mesi fa, [il governo] ha apportato alcune modifiche alla legge sull’Autorità per i Media Audiovisivi, ma ha fatto proprio il minimo del minimo richiesto. Anche se la Commissione di Venezia si è espressa in modo chiaro, [il governo] ha introdotto soltanto dei cambiamenti minori, di forma…
Abbiamo cercato di fare un po’ di pressione, ma molto spesso non se lo fa, quasi niente è trasparente. Adesso si dice che stanno lavorando sul Capitolo 21 dell’acquis (dedicato alle reti transeuropee, ndr), ma non si sa chi, cosa, come, quando lo sta facendo. Non c’è trasparenza a nessun livello.
Anche quando [il governo] incontra i rappresentanti dell’OSCE oppure del Consiglio d’Europa, nessuno viene da noi e le consultazioni sono spesso solo formali.
Secondo lei, che ruolo hanno i media internazionali? Se si parla dell’Albania e si sollevano determinate questioni, hanno un impatto anche a livello interno?
Due o tre anni fa ho incontrato una giornalista italiana che lavorava come freelance per diversi testamenti che mi ha detto: “Se scrivo criticamente dell’Albania, nessuno mi pubblica, me lo hanno detto chiaramente…”
Poi ci sono casi in cui il primo ministro albanese viene ospitato in un programma italiano e nessuno gli pone alcuna domanda vera…
Questa pubblicazione è il risultato delle attività svolte nell’ambito del Risposta rapida alla libertà dei media e di ATLIB – Advocacy transnazionale per la libertà di informazione nei Balcani occidentaliun progetto cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le posizioni contenute in questa pubblicazione sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni delle istituzioni cofinanziatrici.
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