L’Italia passa senza danni il primo degli esami sul rating che l’attendono questo autunno. S&P, che con Moody’s è la principale agenzia di valutazione della solidità del debito dei vari emittenti, ha confermato ieri sera il suo giudizio sui titoli di Stato di Roma: tecnicamente è in tripla B con prospettive stabili, dunque due gradini al di sopra del livello «non-investimento» (meglio noto come «junk») che potrebbe creare seri problemi di stabilità finanziaria.
Un rating tripla B è basso per un Paese dell’area euro e del G7. Ma la conferma di prospettive stabili, che forse ha sorpreso alcuni anche all’interno del ministero dell’Economia, rappresenta uno sviluppo favorevole per l’Italia: allontana il rischio di un declassamento nel prossimo futuro e potrebbe gettare le basi di un progressivo calo dello spread fra titoli di Roma e di Berlino a dieci anni da adesso alla fine dell’anno. Ieri sera il differenziale ha chiuso a 203 punti (2,03%), con rendimenti decennali al 4,91%, ma vari attori di mercato prevedono uno spread in calo sotto 190 punti entro fine dicembre.
Dipenderà anche dalla valutazione delle altre agenzie di rating, in particolare da Moody’s il 17 novembre: attualmente assegna un giudizio un gradino sotto a S&P, ha già «prospettive negative» e un declassamento porterebbe l’Italia in area «junk». Ma dopo la conferma del rating e di prospettive stabili da parte di S&P — la grande concorrente — per Moody’s l’asticella ora è senz’altro più alta, se davvero intende prendere una decisione potenzialmente dirompente. Resta invece da capire se Fitch, che nelle ultime settimane ha già criticato i piani di bilancio italiani, assegnerà prospettive negative quando dovrà pronunciarsi il 10 novembre prossimo.
La conferma del giudizio di S&P di ieri sera porta un nome: Piano nazionale di ripresa e resilienza. È fondamentalmente la prospettiva delle centinaia di miliardi del Pnrr di investimenti futuri a spingere l’agenzia americana a confermare la sua fiducia nel Paese. A sostenere il giudizio è infatti la previsione che l’Italia tornerà a crescere «sopra l’1% dopo una decelerazione nel 2023 e 2024», dovuta «in gran parte» alla stretta monetaria della Banca centrale europea. Avverte S&P nella nota pubblicata ieri sera: «Di importanza decisiva per questo risultato — ossia per un’accelerazione della crescita dal 2025 — è il pieno dispiegamento dei fondi del Pnrr».
L’agenzia americana riconosce che il Paese, per il momento, ha mostrato livelli di esecuzione dei piani piuttosto «bassi». Ma aggiunge: «L’Italia non è un’eccezione nel contesto di altri governi europei che beneficiano della gran parte di questi fondi». La previsione di S&P è che a Bruxelles si possa decidere di spostare in avanti le scadenze se vari Paesi non avranno eseguito gli investimenti entro il 2026.
La scelta di S&P però non equivale a una prova superata senza condizioni. Il rating — si legge — dipende da un’esecuzione perfetta del bilancio del 2024, senza slittamenti sugli obiettivi di deficit e debito. Non sarà facile, anche perché S&P prevede nel 2023 una crescita in rallentamento di 0,7%: in linea con altri previsori indipendenti, ma molto meno dell’1,2% messo in conto dal governo. L’altro rischio indicato per il rating è poi che ci sia un’attuazione «solo parziale» delle riforme economiche e di bilancio del Pnrr.
Di certo, in un momento di profonda fragilità geopolitica, S&P decide di non alimentare tensioni e dare così fiducia all’Italia. Ma più ancora alla Grecia: il suo rating ieri è stato rialzato, con uno storico ritorno al grado «investimento».
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